Alla ricerca dei “genitori perduti”

31 Gen 2015

di Maria Libranti

Dal nostro osservatorio privilegiato abbiamo, insieme agli insegnanti e a poche altre categorie professionali, la possibilità di osservare molto da vicino le famiglie e di rilevarne i cambiamenti nel tempo.

Anche da un’analisi superficiale è evidente che i rapidi mutamenti degli ultimi decenni  hanno rivoluzionato l’assetto famigliare. Sono scomparsi i nonni all’interno di famiglie sempre meno numerose (quando non uniparentali) ed  anche i fratelli e gli zii sono in via di estinzione (com’è inevitabile quando si è figli unici). Quasi tutte le  madri lavorano fuori casa, barcamenandosi a fatica tra i vari ruoli che sono costrette a rivestire.
I piccoli frequentano sempre più precocemente gli asili nido e il tempo dedicato all’educazione dei figli, già di per sé esiguo, si riduce ulteriormente a vantaggio di televisione (invadente e pericolosa baby-sitter), videogiochi e di tutte quelle attività (sport, inglese, computers, musica etc..) che sembrano diventati una ineludibile offerta formativa per sentirsi “bravi genitori”.

I padri sono diventati “mammi”, le mamme sono “sorelle” o “amiche” quando non, addirittura, figlie dei propri figli.

Ma dove sono finiti di genitori di una volta?
I bambini che frequentano i nostri ambulatori sembrano cercarli disperatamente, bisognosi come sono di una guida ferma che possa contenere le loro emozioni e rassicurarli nelle difficoltà. I capricci all’infinito e il desiderio insaziabile di beni materiali (giocattoli, vestiario alla moda, a volte cibo etc..) altro non sono che la inconscia, e spesso vana, provocazione di un “limite”; la tangibile sperimentazione nell’adulto – da parte dei bimbi – più forte di loro cui potersi affidare, sicuri, in caso di bisogno.

Si, è vero, una volta i padri non spingevano il passeggino ed erano impacciati a giocare e relazionare con i figli piccoli; cambiare un pannolino poi…, pura fantascienza!
Ma questa evoluzione, indubbiamente positiva, del rapporto padre-figlio non è stata del tutto indolore.

Se priva di quegli eccessi che portavano a stolti autoritarismi non v’è dubbio che per i nostri padri (basta indietreggiare di una o due generazioni) l’educazione degli figli era una impegno che appariva meno gravoso ed, al contempo, assai più efficace di quello odierno. L’assenza paterna dalle attività quotidiane dei figli se da un lato penalizzava il rapporto (la dimestichezza offre maggiori opportunità di conoscenza) dall’altra garantiva al padre tutta quell’autorevolezza necessaria a impartire, a volte con un solo sguardo, le poche regole fondamentali del vivere sociale.
Il padre, ammirato e rispettato, interveniva con saggezza e severità, solo quando le mancanze sembravano troppo gravi per essere coperte dalla benevolenza materna. Bastava un “guarda che lo dico a papà” per rendere mite anche il più irrequieto dei “Gianburrasca”.
Il conflitto generazionale poi, così importante per attraversare la pubertà sotto i migliori auspici, era garantito proponendosi come la più sicura palestra per affrontare e superare le prime difficoltà della vita.
Le madri riuscivano, senza somministrare sedativi (come pretenderebbero – ahimè! -, alcune delle mamme dei miei assistiti!), ad insegnare le buone maniere e perfino a preparare la prima colazione senza l’aiuto della Ferrero o del Mulino Bianco.

Sono certa che i medici di qualche decennio addietro non avranno dovuto patteggiare le terapie come oggi certi genitori ci costringono a fare: « No, dottoressa, lo sciroppino no, Kevin lo vomita. Le supposte? Per carità il bambino non le sopporta. L’areosol? Kevin non se lo lasciava fare neanche a 6 mesi (detto con una punta d’orgoglio). Le iniezioni? Keeeviiii – dice la dottoressa – te le fai le punture?».

Non essendo Kevin altro che uno “sfortunato” bambino che deve decidere tutto da sé, non riceverà altra prescrizione che un viaggio organizzato a Lourdes nella speranza che un “miracolo” possa illuminare la sua sprovveduta mammina.

Lo so, lo so che sembrerò una “reazionaria” scrivendolo (mi sembra già di esserlo solo a pensarlo) ma in una società che organizza corsi formativi anche per sapere come annodare un pareo, un corso di “formazione genitoriale” non lo organizza nessuno?

Dott.ssa Maria Libranti – Pediatra di base.


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